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Il "compito in classe" di Giorgio Manganelli

TRACCIA

«Novecento» di Bertolucci è stato ed è al centro di accese polemiche e di dibattiti del resto iniziati anche prima della sua apparizione sugli schermi italiani. Si sono aggiunti il sequestro e il dissequestro del film. Il candidato, partendo da questo caso — e analizzandolo — cerchi di individuare i termini di un problema così connesso alla vita culturale e di costume e che propone, fra l'altro, il delicato problema della censura.

Manganelli all'esame
SVOLGIMENTO

Sì, ho visto Novecento di Bertolucci. Mi rendo conto che l'evento di per sé è di modesto rilievo, e non è destinato a suscitare controversie. Tuttavia non mi pare del tutto privo di significato, giacché io, per quel che riguarda il cinema, sono un po' meno dell'uomo medio, sono, nel buio della sala, truppa, ciurma, oserei dire teppa, non fosse per la mia radicata paura delle risse. Inoltre, sono miope. Pertanto, le mie scelte sono largamente casuali.

Dunque, il fatto che io abbia visto Novecento è un fatto minimo, uno di quei fatti men che umili, con i quali si costruiscono le cattedrali della statistica. Prima ancora che il film entrasse nel circolo delle buie sale, era entrato nella Storia. Come un erede al trono, era stato discusso quando ancora era nel grembo della madre.

Alla sua prima apparizione, l'eccitazione era già al colmo. Le dimensioni gigantesche, il costo prodigioso, le ambizioni interpretative, infine lo stesso titolo lo proponevano come qualcosa di mostruoso, di monumentale; e, insieme, da una folla di testimonianze variamente autorevoli si sprigionava un senso di fiducia: era un film spazioso, un film nel quale ci si poteva accomodare a proprio agio.

Aggredito a livello planetario, non solo l'uomo medio e men che medio, ma anche l'esperto passò momenti di inquietudine, di frastornato sbalordimento. Nel corteo vennero cooptati politici, psicanalisti, storici. Fu allora che qualcuno cominciò a manifestare un certo disagio. Ad esempio, Giorgio Bocca notò che, in termini di storia, il film era poco attendibile. Qualcuno scrisse, sul Quotidiano dei lavoratori, che i contadini erano visti con l'occhio innaturalmente commosso del borghese. Bertolucci rispose di non aver cercato il vero, ma la poesia; risposta giusta, ma lievemente incauta.

Poi vennero, pressoché contemporanee, la ribellione e il sequestro. La coincidenza singolare fu tale che l'articolo di Natalia Ginzburg per il Corriere della Sera — violentemente polemico — già scritto, venne tenuto in sospeso fino a che il sequestro non venne tolto. Questa faccenda dei sequestri non è nuova, ma non finisce di stupire. Si apprende che un'oscura associazione di combattenti — mi pare si chiamassero «interalleati» — interviene, a Savona, per salvare la patria. Un bibliotecario di Salerno si indigna. Un magistrato interviene. Il film scompare dall'intera penisola. L'uomo men che medio si chiede a che serve e come funziona il meccanismo della censura.

Vi è una debolezza intrinseca nell'azione censoria, ed è l'impossibilità di definire i valori che essa dovrebbe tutelare. Forse vi sono stati nella storia dei momenti in cui la concordia su taluni valori era abbastanza pacifica. In genere, non erano momenti particolarmente liberali. Certamente oggi, in una società in furibonda trasformazione, nessun dizionario, nessuna dottrina giuridica possono definire in modo inequivocabile quel che sia un valore segreto come il «pudore» o un sentimento collettivo come la devozione alla patria. In questa situazione la censura ha sempre torto, anche se intende, poniamo, scoraggiare il cannibalismo.

Comunque, la censura mi ha persuaso a vedere Novecento; non me ne ripromettevo gioie morbose, ma abbastanza densità da indignare qualcuno; forse la censura era uno stizzito omaggio a qualcosa di fascinoso. Non era vero niente.

Di rado ho visto sugli schermi un nulla, un vuoto, una inesistenza coperti da tanti splendidi colori. Natalia Ginzburg ha scritto cose talmente pertinenti da essere lievemente ovvie, forse lusinghiere. Cattiva letteratura? Molto meno. Il racconto più vasto e storicamente impegnato del film italiano recente è insieme furbo e puerile, ingenuo e macchinoso. Nulla vi è necessario, la tragedia si scioglie in una serie di «belle figurine». Il paesaggio è un lodevole adescamento al turismo delle coppie (« itinerari romantici »). I cattivi sono degli ottimi cattivi, nient'altro. Non parliamo dei buoni. Qualcuno ha parlato di «poesia dell'infanzia». Per un film che parla di un secolo, e lo proclama, mi pare una lapide perfetta.

Giorgio Manganelli